27/01/2012
Giornata della memoria 27 gennaio 2012 Saluto del Sindaco di Siena, Franco Ceccuzzi!
Care cittadine e cari cittadini, autorità civili, religiose e militari,
ho avuto modo di partecipare molte volte a questa cerimonia da quando, 12
anni fa, ne venne decretata l’istituzione. Ho sempre seguito con
partecipazione e interesse profondo gli interventi di chi ha saputo affrontare
con intelligenza e profondità un tema, al contempo, così doloroso e delicato.
Oggi, però, mi trovo a vivere questa giornata, la giornata della memoria, per
la prima volta, in veste di sindaco. Ed è un’emozione veramente grande. Vi
confesso che raccogliendo queste mie riflessioni, ho anche pensato, con
preoccupazione, al rischio di usare parole già dette e di far trasparire, anche
involontariamente, l’idea di una ricorrenza vuota e di una liturgia ripetitiva,
fine a se stessa.
Mi è bastato rileggere alcune parole di Primo Levi, dal suo capolavoro Se
questo è un uomo, per convincermi che ci sono storie che, per quanto si tenti
di riscrivere o revisionare, non si possono cancellare, neanche con la forza
del tempo.
“Allora per la prima volta – scriveva Levi – ci siamo accorti che la nostra
lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un
uomo. In un attimo con un’intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata:
siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana
più misera non c’è e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci
ascoltassero, non capirebbero”.
C’è l’abisso in queste parole. C’è il gelo del freddo di Auschwitz. Un gelo
silente. Come quello a cui si trovarono di fronte i soldati dell’Armata russa il
27 gennaio del 1945, apprestandosi ad aprire una finestra sull’inferno.
Oggi quel silenzio si è riempito di voci, da ogni parte del mondo, perché la
Shoah continua ad essere la ferita aperta di tutta l’umanità. Una ferita
terribilmente attuale, come le parole di Primo Levi, che oggi rivivono nelle
tante guerre sparse per il mondo, nei conflitti sanguinari in cui si uccide
ancora in nome della religione o dell’appartenenza etnica.
La storia, in questo senso, ha spiegato tutto, ma sembra averci insegnato
niente. Ha spiegato che l’uomo può precipitare nell’abisso della bestia e
uccidere i suoi simili in nome di un’ideologia folle, ma non è riuscita, neanche
con le testimonianze dirette di chi quel dramma l’ ha vissuto ad impedire che
la storia si ripetesse, seppur in forme e in circostanze totalmente diverse. Per
questo, oggi, che proprio gli ultimi testimoni dell’orrore di Auschwitz vengono
a mancare è fondamentale mantenere alto il valore della testimonianza. Una
testimonianza che dovremo far vivere e rinnovare sulla base della immensa
documentazione che dobbiamo custodire gelosamente. La prova
documentale, infatti deve rimanere un solido fondamento per non indurci
all’oblio e per trasformare noi stessi in testimoni, sia pure indiretti, di come
l’umanità non possa essere mai negata dalla violenza di un potere cieco ed
assoluto.
La parola Shoah – riporta un articolo del Corriere della Sera di qualche giorno
fa – su google oggi rimanda a quasi 7 milioni di pagine: una mole enorme di studi documenti, immagini e parole. Un patrimonio a disposizione di tutti per
ascoltare e capire, soprattutto per le nuove generazioni. La rete, però, risulta
essere anche il maggior mezzo di diffusione del negazionismo, nel quale
verità e menzogna, odio e ignoranza, spesso si mescolano e trovano terreno
fertile per prolificare.
Il rischio maggiore, nel ricordo dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, è
proprio quello di dare per scontato che l’eredità di quella tragedia sia davvero
condivisa da tutti per sempre. Per riuscire ancora a trasmettere la lezione più
difficile che la storia ci abbia mai insegnato, dobbiamo essere in grado di
aggiornare continuamente le forme , i linguaggi e gli strumenti.
E’ una sfida, questa, che riguarda, ognuno, di noi e che dobbiamo portare
avanti nella quotidianità della nostra storia, nella vita delle nostre città. Siena
ha con la comunità ebraica un rapporto molto stretto. Un rapporto scritto,
come ebbi modo di dire nella splendida giornata europea della cultura ebraica
del settembre scorso, nella storia secolare della città. La comunità ebraica
risale, come presenza stabile nella nostra città alla seconda metà del
Trecento, precisamente tra il 1355 e il 1358, in piena età comunale. Un
periodo in cui la comunità si sviluppò e fu molto attiva nella vita sociale,
culturale. Il decadere del Comune coincise anche con l’inizio di una fase più
critica per gli ebrei senesi, culminata con l’istituzione del Ghetto nel Terzo di
San Martino. E’ questo uno di quei momenti bui e drammatici che hanno
caratterizzato, nel corso della storia e delle storie delle singole comunità, la
popolazione ebraica.
Nel tragico corto circuito della ragione che portò alla Shoah, anche Siena,
come l’umanità intera pagò il suo tragico tributo di sangue. Il Rabbino
professor Augusto Hasdà; Bettina Segre Hasdà; Ubaldo Belgrado; Ernesta Brandes; Livia Forti; Gina, Marcella, Graziella Nissim; Gino Sadun e Adele
Aiò Sadun; Davide, Michele, Ferruccio e Morisina Valech. Furono loro le
quattordici vittime che ad Auscwitz vennero sacrificate in nome di
un’ideologia folle. Fu l’epilogo di un percorso drammatico, iniziato con la
vergogna, dell’attuazione, anche nella nostra città, delle “Leggi per la difesa
della razza” e terminato sui binari di un campo di sterminio
Nella notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, infatti, grazie al lavoro di schedatura
degli ebrei e alle liste fornite dall’amministrazione della città, reparti fascisti e
nazisti compirono il “rastrellamento” di 14 persone. Cittadini che non avevano
avuto l’opportunità di fuggire o che si erano rifiutati di credere alle voci che da
giorni parlavano di ulteriori restrizioni delle libertà per gli ebrei. Furono
prelevati dalle proprie abitazioni e incarcerati nella caserma “Lamarmora” di
Siena. Dopo il trasferimento a Firenze e poi a Bologna, il 9 novembre
vennero deportati nel lager di Auschwitz-Birkenau dove trovarono la morte.
Nel buio di quei momenti la luce arrivò da chi trovò la forza e il coraggio per
opporsi. Una luce che arriva fino ad oggi come testimonianza di vita e
d’amore. Chi riuscì ad evitare la deportazione, infatti, poté farlo grazie alla
solidarietà di tanti, anche non ebrei che, a rischio della propria vita e di quella
dei propri familiari, nascosero ed aiutarono materialmente tante famiglie
perseguitate. Un nome tra i tanti è quello di don Rosadini, parroco di Vignano,
che si prodigherà in questa opera di solidarietà così come nell’aiuto alle
formazioni partigiane che operarono sul territorio senese contro le truppe
nazifasciste.
Goti Bauer, deportata quando era una ragazza di 19 anni, unica
sopravvissuta della sua famiglia ad Auschwitz e oggi diventata paladina della
necessità di testimoniare per non dimenticare mai la Shoah disse “Non c’è
ragione, la salvezza è arrivata per caso, per tutti noi è arrivata per caso”. Non so da dove e perché arrivò quella salvezza. So però che, ancora oggi, è
da lì che dobbiamo ripartire. Dalla vittoria, al prezzo di tanto dolore e di tanto
sangue versato, del bene sul male.

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